L’incubo infinito (Lucia Ruggieri)

23.01.2013 20:33

 

 Era il 14 gennaio 2002. Pioveva.

Jacob entrò gocciolante in  casa e si tolse le scarpe. Salutò gli zii e, senza cenare, andò in camera sua. Prese il libro che stava sul comodino e si butto sul letto, un letto morbido e caldo, ricoperto da un piumone blu. Era stanco e guardava la copertina di quel libro e le pagine giallastre rovinate dal tempo:l’Insostenibile leggerezza dell’essere gli era stato regalato da suo padre prima che morisse e aveva iniziato a leggerlo solo il giorno prima. Il libro gli rubava la maggior parte degli attimi della sua vita, composta da inutili “fermo-immagine” che lo ritraevano protagonista di un’esistenza che ormai non gli apparteneva più. Su queste ed altre riflessioni, le palpebre si fecero pesanti e Jacob si addormentò.

Erano circa le 7.00 quando Jacob si svegliò. Gli sembrava di non aver avuto il tempo di chiudere un occhio, di aver vissuto un altro momento inutile e privo di significato: uno dei tanti modi per attendere la morte. Tutti gli oggetti erano invasi da una nebbiolina strana. Scese a fare colazione per nutrire la gabbia che imprigionava la sua fragile e sofferente anima.

Dopo circa un’ora gli telefonò Ty, uno dei suoi amici. Gli chiese insistentemente di fare una gita ad Oslo in compagnia del resto del gruppo. Affermava che sarebbe stato un momento di svago per tutti e, dopo l’ennesimo «no» di Jacob, Ty fu costretto a riagganciare. Solo allora Jacob accettò e richiamò l’amico per avvisarlo. Avvisò anche gli zii e fece preparare il passaporto e i documenti necessari da un amico del padre.

Dopo due settimane Jacob, Ty, Alessio, Martin e Giuseppe si ritrovarono alla stazione ferroviaria di Brescia per prendere il treno di seconda classe. Partirono. Dopo varie ore di viaggio si fermarono a Berlino, dove affittarono due camere d’albergo per la notte. Nella città era appena accaduta una disgrazia: in un’altra stazione ferroviaria erano state ritrovate una decina di persone stroncate da non si sa cosa. Jacob immortalò quella scena offuscata dalla nebbia nella sua sfilza di memorie. Fu allora che si ricordò di aver lasciato il libro a casa e con esso anche qualcos’altro: si sentiva più leggero e sereno. Ormai era lontano e non poteva far nulla.

Dopo la notte i cinque amici ripartirono per la loro meta. Dopo tante ore di viaggio passate ad attraversare l’est - Europa, arrivarono ad Oslo. Scesi dal treno, presero un taxi caricando i pesanti bagagli. Dopo duecentocinquanta metri di strada arrivarono al Thon Hotel Astoria. Entrarono nel’hotel dalla porta a vetro e consegnarono le valigie al portiere. Presero le chiavi e salirono nelle rispettive camere.

Verso le dieci in punto la donna delle pulizie svegliò Martin credendo che fosse uscito. Il venticinquenne si preparò svelto e andò a svegliare il gruppo. Insieme scesero a far colazione, ma, apparte Jacob, non mangiò nessuno. Erano pronti per uscire e visitarono la città che appariva un po’ sbiadita e offuscata. Camminarono per Karl Johnas gate, via principale di Oslo. Nel frattempo era arrivata l’ora di pranzo e poi quella di cena e i cinque respiravano ancora l’aria viziata di quel posto. Stuzzicando qualcosa decisero di entrare in un luna-park occasionale nella periferia della città. Le attrazioni erano affollate e le file lunghissime. Erano molti i giovani assieme alle proprie ragazze. Giuseppe propose allora di fare un giro in fondo al parco, dove le luci erano più fioche e cupe. Andarono. Il panorama che si presentava loro non era un granché: forse una banda di vandali aveva deturpato il paesaggio e fracassato le luci aggiungendo qualche graffito sul muro. O forse era accaduto qualcosa molto prima.

Qualcuno si avvicinò: era una figura scura e portava qualcosa in mano; indossava qualcosa di molto lungo, forse un cappotto o una tunica. Gli  amici si rifugiarono dietro una vecchia attrazione e l’uomo se ne andò. Poi sgattaiolarono fuori e si diressero verso l’uscita, ma era bloccata. Avevano superato l’orario di chiusura del parco e ora erano bloccati lì. Molti la presero bene pensando di avere il parco a loro disposizione, ma nell’aria, oltre alla nebbia, c’era puzza di trappola. Iniziò a nevicare e il gruppo cercò riparo assieme ad una coppia e un bambino. Non riuscivano a trovare un’attrazione aperta finché non arrivarono alla “Casa degli specchi”. Jacob sapeva di non dover entrare, ma era l’unico riparo dall’imminente grandine. Decise di entrare col resto del gruppo, lasciando gli altri all’entrata a giocare colla neve. Come aveva previsto Jacob, iniziò a grandinare e, per quanto gridasse, le persone al cancello non si muovevano di lì. Rimanevano ferme. In piedi. Sembravano assenti e non si rendevano conto della realtà. Poi sparirono.

 Jacob e gli altri si addentrarono nell’attrazione buia e non curata. Gli specchi erano sporchi e appannati. Sembrava che qualcuno ci avesse respirato sopra per anni eppure non era una giostra molto frequentata. Girarono tra gli specchi per una mezzoretta quando i componenti del gruppo decisero che sarebbe stato meglio trascorrere la notte al riparo fino all’ora di apertura. I cinque amici sistemarono dei teli dove fecero stendere la coppia e il loro bambino. Poi andarono a fare un giro in quel labirinto di specchi per tracciare un sentiero per arrivare all’uscita il giorno dopo.

 Jacob si fermò davanti ad uno specchio mentre gli altri continuavano a camminare: la sua figura riflessa nella lastra lucente sembrava dominata da qualcos’altro e la sua carne riluceva pallida nell’oscurità. Jacob cercò di illuminare lo specchio con una torcia, ma cadde a terra accecato dal riflesso. Sentiva qualcuno alle spalle e si rivedeva bambino nello specchio, quando i genitori erano appena morti in un incidente. Nell’immagine, accanto a lui, sedeva una figura che gli ricordava qualcosa di famigliare, forse un’amica. Jacob si alzò e si diresse verso lo specchio screpolato. Fu allora che Ty arrivò da lui e, distraendolo dal suo sogno, lo portò dagli altri.

Problema: gli altri non c’erano. I due si divisero e andarono a cercarli. Jacob evitò, durante il suo cammino, di guardare gli specchi e si fece guidare dal suo istinto. Sentì dei passi rimbombare nell’edificio e si nascose. Sbirciò a sinistra e rivide la figura scura che aveva visto cogli amici in fondo al luna-park. Il ragazzo sentiva l’aria farsi pesante e respirava a fatica. Poi qualcuno lo prese alle spalle e, per sua fortuna, era solo Martin che diceva di essersi perso. Si accucciarono insieme e guardarono l’uomo che si chinava nel prendere qualcosa. Ad un tratto si aprì una botola all’altezza della persona. Un grido invase l’attrazione e raggelò la schiena dei due amici. Le luci vennero accese e dalla botola uscì un uomo scarno e pieno di ferite. Aveva in mano un coltello e si stava tagliando la pelle. L’altro gli porse una tela e una ciotola rancida. Il malandato iniziò allora a dipingersi sulla lastra ruvida. Poi si girò e guardò ammaliato i due giovani e gridò ancora.

Jacob si girò e Martin era sparito. Dissolto nella nebbia che persisteva dalla partenza. Lo specchio era sporco di sangue che gocciolava ancora verso il pavimento. Jacob volse lo sguardo al soffitto alto e vide l’amico penzolare col cranio fracassato e l’addome  trafitto da una lancia.  Jacob lasciò cadere la torcia e si allontanò tremante. Arrivò di spalle allo specchio quando la figura che dipingeva si avvicinò al corpo sospeso. Iniziò a mangiarne facendo cadere i resti di carne. Sembrava una bestia, un cannibale affamato, un mostro, un assassino spietato e crudele, senza pietà per la razza umana. Martin Rigutti era morto e mancava poco alla fine.

Jacob scappò e si rintanò nella botola che non era più sorvegliata dall’uomo asiatico. All’internò c’era la famiglia norvegese e Giuseppe. Erano stati frustati, legati e riempiti di calci. Infatti nella stanza c’erano numerosi attrezzi per la tortura e alcune armi bianche.  Jacob cercò di liberarli, ma sentì il rimbombo di alcuni passi e si nascose dietro dei barili. L’uomo asiatico mostrò il suo volto ferito e si avvicinò al bambino colla sua sciabola: gli bloccò le mani e rivelò la sua natura da macellaio facendo a pezzi il povero bimbo. La stanza si riempiva delle urla e imprecazioni della madre del fanciullo e il sangue colorava il pavimento di un rosso candido e dissetante. Jacob era attonito dal suo desiderio di far scivolare il sangue caldo nella propria gola. Sembrava posseduto da qualcosa che, poco prima, aveva abbandonato in camera sua.

L’uomo continuò a squartare la coppia, poi si fermò. Arrivato davanti a Giuseppe gli disse che si sarebbero rincontrati a breve e, subito dopo, portò a compimento la sua missione. Jacob si era ripreso e voltava lo sguardo alla scena che gli si presentava. Ora era morto anche Giuseppe Grimaldi e Jacob capiva che sarebbe toccato anche a lui. Jacob notò che alla sua destra c’era una piccola porta di ferro e, aspettando che il carnefice se ne andasse, vi entrò.

 Era sbalordito dalla stanza che vedeva: era grande e aveva gli angoli in oro; alla parete erano appese decine di quadri nei quali dominava il rosso e la desolazione. Guardò con attenzione le tele e notò che in una di esse c’erano lui e i suoi amici, due dei quali morti. Nel quadro vedeva la faccia di Alessio affievolirsi e poi sanguinare e ammaccarsi. Anche Alessio Rigutti era morto e veniva abbandonato al suo triste destino. Jacob guardo gli altri quadri e vedeva che i soggetti raffigurati erano alcuni suoi conoscenti spariti anni prima: la famiglia Pierce, lo zio Arcore e la vicina di casa. C’era anche la famiglia norvegese a pezzetti. Il primo quadro, invece, raffigurava i suoi genitori divorati per metà corpo. Jacob rimase paralizzato per qualche minuto e poi ritornò nella stanza delle torture.

Giunto nel sotterraneo prese una spada e andò furioso verso il luogo del massacro di Alessio intento a fermare il diabolico mostro. Si fermò lì, ma non c’era nessuno, nemmeno il cadavere. Si fece allora guidare dagli specchi che sembravano portarlo alla soluzione. Niente da fare. Era perso. Si sedette aspettando la sua ora e fissò lo specchio che aveva di fronte: c’era il suo riflesso ricoperto di nebbia che obbediva agli ordini del suo padrone. Ad un tratto la figura nella lastra iniziò ad acquistare un’espressione sinistra e a graffiarsi il volto. Dietro di lui apparve il pittore col suo seguace. Jacob si alzò di scatto e, impugnando l’arma, mozzò la testa dell’asiatico. Lo stesso destino toccò al cannibale che aveva ormai divorato anche Ty Coluzzi.

 Jacob non riusciva a credere di aver ucciso il male. Era rimasto solo, però. Con la cravatta dietro la schiena e il braccio ferito. Correva libero verso quella che credeva fosse l’uscita dell’attrazione. Si fermò di colpo. Capiva che c’era qualcosa di strano, che lo aveva abbandonato. Qualcosa che, fino a poco prima, era il suo pensiero fisso, la sua amica.

Fu allora che partì un lento applauso. Jacob si girò e vide una figura alta e snella, pallida.

« Bravo. –gli disse –Hai sconfitto Jamal e Pierre e ti sei anche ricordato di me. Sono commossa. Peccato che volevi sfuggirmi. Perché?! Non ricordi come stavi con me?!»

Jacob tremava mentre ella si avvicinava. Poi si calmò e la seguì sorridendo. Era impazzito e navigava in un mondo di piacere. Poi morì. Si suicidò incantato dalla sua cara amica Morte che per anni lo aveva guidato fino a fargli raggiungere la depressione totale per la perdita dei suoi amici.

Fu allora che si risvegliò. Era stato tutto un incubo. Chiamò Ty per sapere se andava tutto bene. Fu in quella telefonata che l’amico gli chiese di fare un giro ad Oslo con lui e il resto del gruppo. Naturalmente Jacob si rifiutò, ma, capendo che i quattro sarebbero andati comunque, decise di aggregarsi al gruppo.

Partirono e ripassarono nuovamente da Berlino, dove era avvenuto l’incidente. C’era ancora della nebbia che accompagnò i cinque fino ad Oslo. Giuseppe cercò di nuovo di portarli al luna-park, ma Jacob riuscì a distrarli. Salirono in taxi, ma questo li portò al parco. Ci entrarono e Jacob cercò di non fare ritardo, ma il parco era già chiuso. Nonostante lui cercasse di evitarlo, gli avvenimenti si verificarono comunque. E morì di nuovo.

Fu allora che si svegliò circondato dalla nebbia sempre più fitta. Un altro incubo. Ma anche questa volta si verificò tutto di nuovo. E morì ancora.

Si svegliava e dopo moriva. Stava impazzendo nel suo incubo. Era intrappolato.

Gli zii, vedendolo non risvegliarsi, chiamarono un medico che accertò la sua morte,la morte di Jacob Costa, ma lui era ancora intrappolato in quel  circolo infinito di distruzione a pensare che l’intera esistenza fosse solo il frutto della sua immaginazione.

Fu allora che Jacob si rese conto che il libro aveva ragione, che Nietzsche aveva ragione: un giorno ogni cosa si ripeterà come l’abbiamo già vissuta, e anche questa ripetizione si ripeterà all’infinito!